giovedì 26 dicembre 2013

SILVIO POLLONI

Scriveva di sè "Dove sono nato: a Firenze, in un meriggio di gennaio e sono tanti gli anni, che non li ricordo più. La mia vita non so se interesserà a qualcuno. Vediamo cosa posso narrare.
Ho cominciato, come era abitudine di quei tempi, a fare il ragazzo di bottega da un amico di mio nonno, un doratore artigiano allora di molta fama e molto rispettato da una clientela ormai scomparsa.
La mia fanciullezza non fu allegra: molti fratelli, pochi quattrini e quindi tutto quello che potevo guadagnare era per la mia adorata madre un modesto aiuto. Mio padre, artigiano decoratore di grande valore, fu per un certo periodo di tempo ammalato. Il cammino della vita si faceva dunque assai difficile.
Ricordo che mia madre mi dava venti centesimi dei pochi che le portavo; allora mi recavo ai Pratoni della Zecca, in Piazza Beccaria e, pieno di gioia, salivo su quella piccola e povera giostra che c'era, con la speranza di addolcire le mie amarezze; infatti se fossi riuscito ad infilare, durante il giro, un anello, avrei conquistato il premio di due caramelle. Purtroppo far "centro" non era facile. Così osso dire, è stato per me durante tutta la vita. Però da quell'anello trassi infatti un insegnamento, sicchè ho cercato sempre di accontentarmi, senza troppo chiedere di "far centro".
Ebbi da Dio doni per vivere la vita più bella: la musica, il canto, la pittura e nel mio lungo cammino ho cercato con umiltà di riempire con queste doti la mia esistenza.
Ritornata la tranquillità per la guarigione di mio padre, ripresi il cammino interrotto, e dopo essere stato apprendista di vari maestri decoratori, entrai nella bottega paterna. Sono rimaste famose, mi dicono, quelle biciclette che decoravo al modo floreale, in quei giorni.
Iniziai il mio lavoro frequentando la Scuola Professionale d'Arte di S. Croce (oggi Istituto d'Arte) fino alle classi superiori, fatto che mi permise di affinare la mia passione per la pittura, alternandola al mio lavoro artigianale.
Poi, venne l'amore e, subito dopo, la guerra.
Feci il mio dovere di cittadino soldato (non di combattente perchè non so combattere coi fucili). Caporal maggiore zappatore, lavoravo da geometra.
Passata la bufera... eccoti un'altra bufera: lo studio del canto. Avevo, già nella mia giovinezza, fatto parte della Scuola di Canto alla Cappella della SS Annunziata e mi fu facile studiare con amore ciò che a me dava tanta gioia interiore.
Dopo quattro anni di studio, il debutto: successi, interessamento di personalità di teatro, fino a raggiungere la stima per alcune audizioni che ebbi al teatro "La Scala" di Milano. Sembrava che fosse quello il momento di "fare centro". Niente invece! Condizioni di famiglia, circostanze che troppo lungo sarebbe il narrare, l'età non più eccessivamente giovanile, lo sgomento mi fecero rinunciare senza rammarico.
Rientrato nel 1924 nella vita artistica pittorica, ripresi contatto con i miei vecchi colleghi, partecipando alle lotte, discussioni, frequentando il Caffè delle Giubbe Rosse, mèta decisiva per le conoscenze di illustri nomi che oggi onorano la nazione. Quanti artisti, ormai scomparsi, ho conosciuto in quella specie di teatro che il caffè! Soffici, Rosai, Papini, Andreotti, Carena, Griselli, Lodovico Tommasi e Viani col vecchio Nomellini. Con questi ultimi due, alla Biennale del 1936, dove anche io ero rappresentato, mi ritrovai una sera in una trattoria veneziana, nascosta in quel groviglio di calli. Nel tempo che si aspettava che ci servissero, un suonatore di fisarmonica, che era lì, fu chiamato da Viani che, rivolgendosi a me (mi sembra ora): - Polloni - disse - cantami "O soave fanciulla" (dalla "Bohème)! - Cantai invece, la "gelida manina". Finito il pezzo (una serata felice, colpa della laguna!) m'accorsi che la gente faceva a cazzotti per entrare e che il suonatore non solo aveva intascato un bel mucchio di bajocchi, ma pretendeva che seguitassi: però più che l'onor potè il digiuno. Questa. per dirne una.
Passano gli anni. Di nuovo una guerra (e che guerra) e l'attesa che Dio liberasse da quella crudeltà l'umanità sconvolta.
Così mi raccolgo nel buio dello spirito avvilito e attendo. Ritorna il sereno e nuovamente. con maggiore passione, con la libertà riconquistata, comincio a rientrare nel mio mondo pittorico on il tema a me più caro: l'Arno e Bellariva.
Ora sono molti anni che lavoro su questo tema: non so che cosa avrò fatto di buono. Ritornata finalmente la luce nei miei occhi spenti, felice nel lavoro, felice nell'amore, nuovamente il destino non vuole la mia pace. Un mattino, nel cinquantesimo anniversario della unione con la mia amata moglie ecco che la morte la prende! Avanti ancora. Sfido con il lavoro l'avversità e all'ultimo atto della mia vita una sciagura travolge la mia amata città e con essa il mio studio, i miei lavori, tutto viene sommerso nella tragica alluvione.
Ormai ala soglia degli ottanta mi sia permesso un riepilogo: in questi ultimi vent'anni (circa) credo d'aver realizzato, col tema a me congeniale (l'acqua e il fiume), la chiarezza di una pittura che ha un po' di quella poesia che mi sento dentro e che mi sembra liberata dai modi impressionistici e macchiaioli. E con questo mi pare di poter dire: chissà se le opere che resteranno a mia testimonianza non abbiano fatto, una volta tanto, proprio quel "centro" tanto caro alla mia fanciullezza. Dio lo voglia. Ma io mi contento anche così"
Silvio Polloni

Che dire... che sfiga... comunque non è che mi pareva proprio "accontentato" da quello che scriveva... sinceramente mi pareva gli girassero parecchio i corbelli... in ogni caso mi pare che abbia "fatto centro" nella pittura. I suoi quadri sono molto belli!

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